Di me ce ne sono due. Uno è ordinato, calcolatore, razionale. Questo ha in mano il timone della mia vita e ne dirige la rotta con la forza gentile della riflessione, obbediente all'essenziale.
L'altro è febbrile, caotico, nervoso e passionale. Coltiva il nonsense per odiarlo e insieme farne il caposaldo delle mie convinzioni. È irrazionale, provocante, si nutre di nichilismo.
Di me ce ne sono due. Ed entrambi lottano per la supremazia. Al primo non concederò l'onore di lasciarmi assopire; al secondo non permetterò l'arroganza di volermi sopraffatto. Io sono in mezzo, all'incrocio delle correnti, fermo come un faro in un mare in burrasca.
Questo mi definisce, e dà forma all'uomo come all'artista. L'azione del creare placa la crisi: lì, nel centro della tensione, domo pensieri e paure, governo gli elementi dell'inconscio, navigo tra bellezza e orrore.
La realtà. Non mi basta mettervi ordine, né è nei limiti fisici della materia di cui sono circondato: la realtà non mi basta, ed è per questo che la invento.
Le mie fotografie sono una ossessione riuscita, sono incubo e sogno, sono sonno e veglia. Esse contengono le mie moltitudini.
Ho un'attrazione per gli oggetti. Da sempre. Ne scruto la forma, la superficie, l'inevitabile carica simbolica: gli oggetti mi costringono a una riflessione sulla loro natura. Non meno interesse suscita in me la figura umana. Le forme sussurrano sensazioni, le sento invitarmi a ricercare l'imperscrutabilità dei segni, a dare senso a bellezza e imperfezione. I corpi suggeriscono, e io li altero perché possano dispiegare il loro potenziale nella forza del contrasto.
Oggetti e figure umane. Due medium che si incontrano per stabilire un equilibrio, due messaggeri a cui ho affidato la consegna di parlare di me, di farlo per me. Di mezzo c'è la mia fotografia, quell'attimo nel quale ogni cosa si allinea disciplinatamente al mio volere. Poi, lo scatto. E subito l'ossessione trova ristoro, e «i miei due» trovano tregua in me.